dott.ssa Veronica Zaga
Immagina di essere un bambino.
Non sai ancora parlare come fanno la mamma, il papà, l’educatrice e tutti quelli che stanno là in alto.
Sai qualche parola, ma non cosa dire.
Il modo in cui comunichi, con corpo e sguardi, è spesso frainteso dagli adulti. Ti spostano qua e là come un sacco, dando per scontato che tu ne abbia voglia.
Un giorno sei all’asilo, i tuoi compagni giocano con le pentole e le costruzioni di legno.
Tu osservi e non ti muovi.
Finché ti viene un’idea.
Prendi una pignatta e la rovesci, passi i polpastrelli sul fondo e lo trovi liscio.
Un dito cade sulla superficie e produce un suono metallico e interessante.
Perciò batti tutta la mano e l’intensità della risonanza aumenta.
I palmi si mettono a danzare sull’acciaio, producendo ritmi e musica.
I tuoi compagni smettono di giocare e ti guardano ipnotizzati dalla novità.
Afferri un cilindro di legno e lo percuoti.
Gli altri imitano lo strano gioco e l’assolo diventa un’orchestra.
Le educatrici si incuriosiscono.
Prendono parte all’insolito fenomeno.
In poco tempo la musica diventa guida del vostro rapportarvi, senza più accennare ad usare la voce, se non per cantare.
Vi state esprimendo e comunicate in quel modo “magico”, come se foste telepatici.
All’improvviso tutti ti capiscono e ogni cosa sembra più facile.
La musica (soprattutto in Italia) è vista come “studio”, come un esercizio intellettuale e colto di un sapere per pochi.
Ma già dall’esempio che vi ho appena fatto si può dedurre che non è così.
Anche nella più classica delle orchestre sinfoniche regnano aspetti comunicativi che non si immaginerebbero. Archi, fiati, ottoni e percussioni non sono meri ripetitori di partiture, le reinterpretano, dialogano tra loro, moderati dal direttore. La loro esecuzione è unica, dettata da sguardi, respiri e ascolto reciproco. È una situazione ricca di vissuti irripetibili.
Suonare è un bisogno dell’essere umano, perciò è importante dare modo alle persone di sperimentarlo. Può diventare una modalità espressiva che libera dagli imbarazzi dell’espressione verbale, che coinvolge il corpo e ammette pause e silenzi. Un’espressività estatica.
In educazione, il musicologo François Delalande parla di «corpi sonori», comprendendo il fatto che l’involucro fisico è per primo un produttore di musica, che sia vivo o inanimato.
Attraverso l’esplorazione dell’ambiente, i bambini entrano in contatto con oggetti che sperimentano da tutti i punti di vista, finché arrivano a quello musicale e lì si soffermano, perché assume per loro un’attrazione particolare.
In questo modo imparano il ritmo, prendono confidenza con le sonorità e creano melodie con oggetti della quotidianità.
Per Delalande la musica è sperimentale, non legata strettamente agli strumenti tradizionali. Una tale permissione, dà modo all’esecutore di esprimere se stesso con movimento e suono, in maniera concreta e profonda, in uno slancio istintuale e interiorizzato.
Per il professor Edwin E. Gordon, ideatore della Music Learning Theory, la musica è la maniera migliore di comunicare con il bambino che ancora non parla, cantando per lui stralci melodici privi di parole, composti solo da semplici sillabe senza significato.
Così, il piccolo apprenderebbe le leggi del melodico e del ritmico senza mediatori teorici ma direttamente dall’esposizione, come per il linguaggio parlato, arrivando anche a rispondere ai gorgheggi dedicatigli dall’adulto…
Pensate ora ad un adolescente.
Ha dei problemi relazionali, perciò i genitori gli hanno consigliato di frequentare lo studio di una psicologa.
Lui accetta e va agli incontri, ma non spiccica quasi mai un discorso, se non sul più e sul meno, argomenti per cui la sua parlantina si accende.
Lei lo mette in soggezione o forse non è nemmeno lei, è che in generale ha difficoltà a esternare i propri sentimenti in colloqui verbali.
La psicologa non sa che fare, ha provato ogni metodo per farlo aprire.
Allora gli lascia il suo numero di cellulare, esortandolo a chiamarla o anche a scriverle un sms, in caso di bisogno.
Il ragazzo lo registra nella rubrica e torna a casa.
Nella sua cameretta, con il telefono in mano e senza sguardi puntati addosso, riesce a formulare frasi al riguardo di come si sente, per iscritto.
Invia, così, le sue riflessioni alla dottoressa, che da quel giorno comincia a capirlo e a parlarci e intraprende con lui una terapia che sembra portare miglioramenti nella vita del giovane paziente.
Come visto, anche scrivere rappresenta un’alternativa espressiva alla modalità del parlato.
Il verbale sembrerebbe l’azione più scontata, appresa per esposizione durante i primi anni dell’infanzia e perciò considerata la modalità naturale di comunicazione.
Eppure trascina con sé carichi emotivi che possono portare – soprattutto in persone con difficoltà emotive, sociali o psicologiche – a veri e propri blocchi e relativi impedimenti comunicativi ed espressivi.
La scrittura può avere dei risvolti “terapeutici”, in questo senso.
Scrivere di come ci si sente e delle proprie emozioni, ad esempio, toglie dall’imbarazzo del contatto con altre persone, ci rende più intimi con noi stessi e può aiutare a superare quell’ostacolo con maggiore apertura verso le proprie sensazioni, in esercizi di elaborazione di discorsi e pratiche espressive, con la sperimentazione della propria interiorità nel contatto virtuale con altre individualità.
Lo psicoterapeuta americano James Pennebaker ha ideato il metodo della Scrittura Espressiva, in cui la persona durante le sessioni di scrittura esprime su carta le proprie emozioni, i traumi dei propri aspetti personali, i fatti e ciò che ha provato nell’affrontare le situazioni traumatiche. È un modo per fermarsi e riflettere su di sé al di fuori della frenetica routine, non solo per sfogarsi ma soprattutto per far luce sulla propria interiorità e identità.
In questo modo Pennebaker è riuscito a raggiungere risultati sorprendenti e benefici nel trattamento dei pazienti con problemi emotivi.
In conclusione, musica e scrittura non sono poi tanto lontani rispetto al linguaggio orale, rappresentano modalità di espressione che gli si affiancano e possono permettere alternative a chi trova difficoltà ad esporsi, aiutare a crescere e conoscere se stessi.